«Perché ho lasciato il mio posto in azienda per fondare una startup di AI». Intervista ad Alessandro Vitale, CEO di Conversate.
La sfida di passare da manager a founder. L'innovazione nel settore enterprise. Come stare al passo con nuove tecnologie e professioni emergenti.
Incontriamo Alessandro Vitale al caffè di Talent Garden Calabiana, a Milano. Alessandro è il fondatore di Conversate, un’azienda di intelligenza artificiale, è autore del libro “Artificial Intelligence” della collana di Talent Garden Innovation School edito da Egea, ed è membro della Task Force sull’Intelligenza Artificiale presso l’Agenzia per l’Italia Digitale.
La storia di Alessandro è interessante: a trentadue anni lascia un lavoro da manager in azienda e diventa imprenditore nel settore dell’intelligenza artificiale per il mercato enterprise. Gli facciamo qualche domanda per ricostruire gli eventi che l’hanno portato al successo e per conoscere la sua visione sui cambiamenti che l’intelligenza artificiale porterà nel mondo del lavoro.
Puoi spiegarci cosa fa Conversate e a chi si rivolge?
Conversate è un’azienda di intelligenza artificiale. Il nostro prodotto è una piattaforma enterprise utile a realizzare sistemi di comunicazione basati su interfacce conversazionali. Ho fondato Conversate per fornire alle grandi aziende gli strumenti per creare chatbot e assistenti virtuali di qualità avanzata. La maggior parte delle soluzioni oggi presenti sul mercato permettono di realizzare chatbot relativamente semplici; il nostro obiettivo è invece abilitare le imprese a realizzare progetti ambiziosi, per creare assistenti virtuali intelligenti al livello di quelli sviluppati di Google, Amazon o Facebook.
Qual è il percorso che ti ha portato a fondare Conversate?
Ho studiato ingegneria a Bologna, poi ho ottenuto un MBA presso il MIP Politecnico di Milano. Poco dopo sono entrato in Siemens, nel team italiano di strategia. Ho fatto carriera in azienda, diventando responsabile del sud-ovest Europa. In quegli anni il mio lavoro era condurre analisi strategiche. Seguivo con attenzione la rapida crescita di aziende come Google e Amazon, che già allora avevano profitti molto alti. Da poco usciti dalla crisi delle dot-com, Google faceva profitti simili a Siemens: era chiaro che stava accadendo qualcosa di significativo. Durante le mie ricerche mi resi conto che queste imprese usavano tecniche di Machine Learning e intelligenza artificiale. Tra le altre cose mi occupavo di definire i piani di cross-selling per i key account dell’azienda; notai come Amazon facesse lo stesso per i suoi utenti, sul sito e-commerce, utilizzando algoritmi di raccomandazione. Per coincidenza nascevano alcuni corsi, come quello tenuto da Andrew Ng, all’epoca professore Stanford, sul Machine Learning. Iniziai a pensare di creare un’azienda specializzata in algoritmi di cross-selling dedicati al mondo B2B: volevo portare l’innovazione di Amazon nel mondo fisico delle imprese. Nel 2008 avevo trentadue anni, fondai la mia prima azienda, Optimist AI dove “Ai” stava per Augmented Intelligence: l’Artificial Intelligence permette alla macchina di svolgere attività al posto delle persone, l’intelligenza aumentata invece aumenta l’intelligenza, la produttività, l’efficienza e efficacia delle persone. In Optimist AI creammo un’ottima tecnologia, forse un po’ in anticipo sui tempi. Scoprii infatti che l’adozione dell’intelligenza aumentata comporta tanti cambiamenti organizzativi: richiede di cambiare il modo di lavorare, il sistema di incentivi, il metodo di misurazione dei risultati. Fu molto difficile portare questo tipo di innovazione nelle aziende, proprio per la difficoltà nell’implementare i cambiamenti necessari a livello organizzativo. Questo mi portò poi a fondare Conversate, un’azienda specializzata in chatbot: per le aziende, i chatbot sono una tecnologia molto più semplice da adottare.
Come mai a trentadue anni, in un momento di forte crescita in azienda, hai deciso di fondare una tua startup?
Nel 2008 crollano i mercati. Tutto il mondo si ferma e tu scopri improvvisamente di avere del tempo libero. Quel tempo a disposizione l’ho occupato studiando e riflettendo sul prossimo passo del mio percorso: continuare a fare carriera in azienda o inseguire il desiderio, da sempre presente, di fondare qualcosa di mio? Si dice “se vuoi andare lontano viaggia in gruppo, se vuoi andare veloce viaggia in pochi”: in cinque anni trascorsi all’interno di Siemens avevo visto un’azienda molto grande, con un secolo di storia, che mi aveva dato grandissime soddisfazioni ma che camminava lentamente. E io avevo voglia di andare veloce: era il momento giusto, perché c’erano nuove tecnologie da sperimentare ed ero convinto di avere le idee giuste per farlo.
Quale visione guidò la tua decisione di fondare un’azienda nel campo dell’intelligenza artificiale?
Ai tempi si iniziava a parlare di Big Data. I primi impieghi in questo campo miravano a sostituire processi semplici, ETL (processing dei dati) e così via, nessun sistema particolarmente intelligente. Si facevano calcoli semplici su grandi masse di dati. Mi era chiaro che i Big Data erano un elemento di grande ricchezza, ma non erano il fine ultimo: lo scopo è sempre poter fare delle azioni; per fare azioni ho bisogno di un elemento che semplifica la complessità. Per fare azioni a partire dai Big Data, quindi, ho bisogno di Machine Learning e intelligenza artificiale. La tecnologia c’era in realtà già da tempo; l’elemento abilitante fu la nascita di nuovi canali e il cambiamento nel comportamento delle persone. Un esempio: anche negli anni Novanta c’erano i chatbot, però allora le persone non erano abituate a chattare. Oggi le persone passano le giornate su WhatsApp. E quindi anche il chatbot, oltre a funzionare meglio grazie agli algoritmi, ha terreno fertile nelle abitudini delle persone. Questa è una delle chiavi di lettura per valutare possibili applicazioni dell’intelligenza artificiale: le persone dovranno cambiare le loro abitudini? Alcune innovazioni tecnologiche richiedono un cambiamento di comportamento, come per esempio i motori di ricerca: abbiamo dovuto imparare ad usarli, perché prima non c’era nulla di simile. I chatbot, invece, sono diversi: a loro devi solo chiedere, come faresti con una persona in carne ed ossa. È successo lo stesso con le automobili: quando sono diventate un prodotto di largo consumo abbiamo creato rotonde e semafori, che prima non c’erano. Mi chiedo: dovremo costruire un’auto così avanzata da essere perfettamente in grado di guidare nell’infrastruttura pensata per gli uomini, o cambieremo l’infrastruttura per riuscire a introdurre più rapidamente l’auto a guida autonoma?
Da manager d’azienda a imprenditore. Quali sono state le difficoltà più grandi in questo passaggio?
Fondare un’azienda vuol dire dover fare un po’ tutto di tutto, anche cose mai fatte prima. Nell’ambito dell’innovazione è anche necessario comprendere quando è il momento giusto per andare sul mercato. Optimist AI, la mia prima azienda, era in anticipo di qualche anno rispetto alla maturità del mercato. Molte aziende ancora oggi cercano di proporre prodotti simili a quelli che facevamo noi, come sistemi di cross-selling basati su intelligenza artificiale. Dubito del successo di queste iniziative, perché la difficoltà a introdurre cambiamenti a livello organizzativo non sono cambiate nel tempo. Qualche anno più tardi, con Conversate, è stato tutto più semplice: nel marzo 2016 Facebook aprì ai chatbot Messenger, il suo software di messaggistica istantanea. Gli utenti sapevano già come usarli, perché erano abituati a usare Messenger con i loro amici. Insomma, il mercato era pronto e mancava una suite di strumenti professionali dedicati alle aziende per realizzare chatbot avanzati: misi in Conversate tutta l’esperienza fatta in passato cercando di creare velocemente un prodotto efficace, che portasse valore sia per le aziende che per i loro utenti.
Quali sono le competenze che cerchi nei tuoi collaboratori?
Cerco persone con competenze di Machine Learning e di intelligenza artificiale. Purtroppo ce ne sono poche, tanti sono andati a lavorare all’estero perché qui in Italia il mercato è in ritardo di parecchi anni. Ed è anche abbastanza inflazionato: nel 2010 chi sapeva usava Excel si faceva chiamare Data Scientist, oggi chi scarica una libreria open source si definisce Machine Learning Engineer – ma non sempre conosce veramente come funzionano le cose. Sul mercato i ruoli e le professioni non sono ancora chiari; a volte mi chiedo: “assumo una persona esperta in processi di business e la formo sulla componente tecnologica o viceversa?”. Spesso la soluzione è il viceversa, perché è più facile insegnare un po’ di business ad un tecnico che il contrario. Mancano anche le figure di raccordo: professionisti in grado di comprendere e parlare sia la lingua del business che della tecnologia. Paradossalmente queste figure, al momento, sono le più scarse sul mercato, ma spesso sono le più importanti. D’ora in poi, nelle grandi aziende, la sfida sarà riuscire a introdurre e gestire strumenti di intelligenza artificiale e Machine Learning: definire la User Experience non solo degli utilizzatori finali, per esempio gli utenti di un chatbot, ma anche tutta la UX e i processi di chi questi strumenti li dovrà gestire, manutenere, monitorare e migliorare. Il disegno dei processi, come la capacità di scalarli e gestirli all’interno dell’azienda, sono ambiti progettuali e di ricerca molto importanti e molto di frontiera.
Chi è il tuo referente nelle aziende vostre clienti?
Spesso un nuovo progetto di chatbot e intelligenza artificiale nasce nei dipartimenti di innovazione. I progetti che riescono meglio sono quelli che hanno radici negli obiettivi di business dell’azienda. Ci vuole la forza e la volontà di andare oltre ad un semplice progetto pilota, operando scelte che abbiano continuità e lungimiranza. Abbiamo lavorato, per esempio, con UBI Banca e Prysmian: queste aziende hanno sfruttato momenti di cambiamento – rispettivamente le acquisizioni delle good banks e l’acquisizione di General Cable – per sviluppare un nuovo progetto di intelligenza artificiale. In entrambi i casi abbiamo creato un assistente virtuale per dare supporto ai dipendenti nella fase di transizione che le aziende stavano affrontando. Queste aziende hanno acquisito profonda conoscenza di cosa voglia dire realizzare un progetto di intelligenza artificiale completo, dall’idea alla messa in produzione. Troppo spesso i progetti “POC” (Proof Of Concept) sono degli ottimi esperimenti, ma non permettono di risolvere i dubbi sul reale impatto di queste innovazioni in termini di competenze e processi nell’intera azienda.
Chi sono i progettisti di sistemi di chatbot?
Il design di sistemi di intelligenza artificiale è fondamentale per guidare e compensare le mancanze della tecnologia. Per esempio, progettando un chatbot è importante definire le domande da porre all’utente, in modo da facilitare il lavoro degli algoritmi. Il progettista di questi sistemi è una figura che prima non c’era. Molte aziende ancora sottovalutano l’importanza di questo ruolo. Il designer di chatbot lavora assieme ai tecnici, perché la progettazione dell’interazione tra l’uomo e l’intelligenza artificiale è profondamente legata agli aspetti di natura tecnologica. Ma creare un assistente virtuale non è solo un tema tecnico, e non è nemmeno solo un tema di design. I chatbot pensati per finalità di marketing spesso funzionano molto male perché mancano di una reale componente di intelligenza artificiale, di conseguenza non comprendono le richieste degli utenti, e agli utenti questo genera frustrazione.
L’intelligenza artificiale sta cambiando il mondo del lavoro. Nasceranno nuovi ruoli, altri scompariranno. Come si crea un approccio sistematico all’apprendimento continuo?
Coursera ha provato a offrire una forma di riqualificazione delle competenze su grande scala attraverso i MOOC, i Massive Open Online Courses. Da allora sono nate molte realtà simili. Purtroppo però è evidente che questi strumenti risultano efficaci solo per i fortunati che hanno già delle competenze di alto livello. Riuscire a portare nuove competenze alla massa della popolazione è un problema ancora aperto. Questa è una delle grandi sfide del futuro. L’intelligenza artificiale non sostituirà le persone, ma le solleverà dalle mansioni più semplici e ripetibili. Purtroppo, però, ancora molte persone lavorano svolgendo esclusivamente questo genere di mansioni. Forse con l’intelligenza artificiale rischiamo di porre una barriera all’ingresso troppo alta a molte persone che non hanno le competenze utili a riqualificarsi. Le soluzioni tecnologiche esistenti, come i MOOC, non stanno funzionando per la parte più vasta e meno preparata della popolazione. Sarà fondamentale trovare una strada equilibrata.