Punkt. e l’arte della semplicità. Intervista a Marcia Caines

La ricerca della semplicità nel design di prodotto, il rapporto con la tecnologia in un mondo sempre più veloce, il futuro dell’informazione e dei social media.

Sergio Panagia

Partner, Technical Director

La sede di Punkt. si trova all’interno di un edificio turchese, in una via stretta e discreta che si arrampica lungo le colline di Lugano. Marcia Caines, responsabile del brand, ci accoglie negli uffici dell’azienda parlando in un perfetto italiano reso caratteristico dal forte accento inglese. Punkt. è un’azienda che ci incuriosisce: vogliamo conoscerla per la sua capacità di creare prodotti tecnologici di largo consumo radicalmente differenti dai suoi concorrenti. Marcia ci fa accomodare in una sala riunioni luminosa: alle pareti sono appese le réclame degli ultimi prodotti, le finestre si affacciano dall’alto sulla città.

Foto di Giovanni Zennaro

Qual è il percorso che ti ha portata ad unirti a Punkt.?

Il mio percorso in Punkt. inizia nel 2011, quando l’azienda lanciava sul mercato il suo primo prodotto: un telefono cordless. Prima di allora lavoravo per Cluster, rivista torinese su città, design e innovazione. Scoprii che Punkt., come molte aziende tecnologiche, cercava professionisti del mondo dell’editoria per costruire strategie di comunicazione innovative, basate più sul marketing di contenuto che sulla tradizionale pubblicità a pagamento. In Punkt. sono responsabile della comunicazione, cerco di raccontare la storia dell’azienda dando voce alla visione del suo fondatore, Petter Neby.

Nel settore tecnologico c’è una corsa ad aggiungere funzionalità. Punkt. cerca di fare qualcosa di diverso: puoi spiegarci la vostra visione?

La tecnologia non dovrebbe creare disturbo, non dovrebbe rubare tutta la nostra attenzione. Dovrebbe risolvere i bisogni concreti delle persone e, nel farlo, dovrebbe completare lo stile personale o l’arredamento in modo semplice, bello e funzionale. Questa è la filosofia che lega tutti i nostri prodotti: dalla prima sveglia al cordless fino al telefono cellulare. Vogliamo riequilibrare il rapporto delle persone con la tecnologia.

Cosa possono fare i progettisti per aiutare le persone a creare relazioni più equilibrate con la tecnologia?

Se guardiamo molto attentamente, notiamo che oggi tutti gli smartphone più o meno si assomigliano. È stato creato un prodotto di massa, ma si è perso tanto dal punto di vista del design. I progettisti devono tornare a considerare il design come un linguaggio: se sollevo con la mano questo telefono (il modello MP02 di Punkt., ndr) posso subito percepire, dal peso dell’oggetto e dalla sua consistenza, la ricercatezza dei materiali con cui è costruito, apprezzandone l’ergonomia delle forme. Il design ci ricorda che ci relazioniamo con gli oggetti, cerchiamo con essi un rapporto che ci rappresenti. Il software si è evoluto in modo straordinario, il design di oggetti tecnologici invece vive un momento di stasi, rimane più o meno inalterato, causando l’uniformità dei prodotti. Ieri mi ha colpito una fotografia sul Wall Street Journal: ritraeva una ragazza che reggeva due telefoni: in una mano uno smartphone, nell’altra un telefono Punkt. Da un lato si vede un enorme schermo di vetro, piatto e senza alcuna personalità. Dall’altro si vede invece questo piccolo oggetto grazioso, fatto con attenzione in ogni dettaglio. Guardando la foto è evidente che nel design esiste un aspetto estetico, un linguaggio che deve essere trasferito anche nell’hardware, nell’oggetto fisico. Dobbiamo tornare a progettare oggetti belli, che diano gratificazione e che durino nel tempo: non è possibile buttare dopo un anno e mezzo un oggetto sofisticato e costoso come uno smartphone.

Come nasce un nuovo prodotto in Punkt.? Come vengono valutate nuove idee e come vengono portate avanti lungo il processo progettuale?

Punkt. è un’azienda costruita sulla visione di Petter, le idee nascono sempre da lui. L’intuizione del primo prodotto, la sveglia, gli è venuta realizzando quanta tecnologia sia presente oggigiorno in ogni angolo della nostra casa. Così inventò una sveglia di design, con la sola funzionalità di mostrare l’ora e impostare la sveglia — lasciando la tecnologia fuori dalla stanza da letto. L’MP01, il primo cellulare Punkt., nacque da una conversazione a Parigi tra Petter e uno sconosciuto, che commentando il telefono cordless di Punkt., disse «sarebbe bello ci fosse nella versione cellulare». Partiamo sempre dalle idee di Petter, poi coinvolgiamo Jasper Morrison, il nostro direttore artistico, e valutiamo tutte le opzioni di design possibili: le idee fluiscono in modo creativo da ognuno di noi, senza alcun limite imposto. Poi iniziamo a togliere, cercando di essere coerenti con la nostra visione originale: riequilibrare il rapporto delle persone con la tecnologia. Più il processo va avanti, più i parametri diventano stretti: rimuoviamo ogni funzionalità superflua fino a che non resta l’essenziale. Nel “processo di rimozione” ci chiediamo continuamente: “quanto è importante veramente questa cosa nella vita delle persone?”.

Nella tua quotidianità usi un MP02, un cellulare che permette di fare chiamate e poco altro. Come nasce questo prodotto e come si spiega l’interesse della clientela per un telefono volutamente depotenziato?

In un mercato saturo e in un mondo in cui siamo tutti un po’ dipendenti dai nostri device, dei quali usiamo forse la metà delle funzionalità disponibili, abbiamo deciso di inventare un nuovo prodotto, chiedendoci cosa fosse realmente necessario alle persone. I cellulari Punkt. permettono di effettuare chiamate, ricevere messaggi e poco altro. La nostra è una visione alternativa, un modo di vivere la tecnologia cercando di darle meno peso, limitandone l’uso in modo intenzionale. Io non ho uno smartphone, uso solo l’MP02. Potrei sembrare di parte nel dirlo, ma con questo telefono sono davvero la persona più felice del mondo. Lo uso unicamente per telefonare. Per tutto il resto ho il mio laptop: quando sono in treno o in aeroporto mi collego a Internet impostando il telefono in modalità hotspot, e ho tutto quello che mi serve. Nella mia esperienza, il cambiamento più importante nel passaggio dallo smartphone a questo telefono è stato l’aumento della produttività e la maggiore capacità di focalizzare la mia attenzione. La qualità del nostro lavoro migliora se dosiamo l’uso della tecnologia. Di questo oggi ritengo ci sia un grande bisogno. Prendiamo per esempio le persone giovani alle prime esperienze professionali: dev’essere molto difficile lavorare bene nonostante le molte interruzioni dovute ad app e servizi che richiedono costantemente la nostra attenzione. Questa costante connessione con il mondo virtuale genera ansia, per questo è importante cercare un rapporto equilibrato con i nostri device. Tutto ciò coinvolge la sfera professionale, ma anche quella privata. Ho una figlia di 17 anni, assieme a lei sono riuscita a definire delle regole: per esempio, non usiamo lo smartphone a tavola – come sarebbe altrimenti possibile avere un dialogo a cena se ognuno controlla Instagram? Ciò porta al confronto e al dialogo. Qualche sera a casa possiamo anche avere poca voglia di parlare, e va bene così. Ma non deve necessariamente esserci sempre qualcosa di mezzo, qualcosa che aumenta le nostre distanze. Vedo che le generazioni più giovani, come quella di mia figlia, sono generalmente più consapevoli di ciò e cercano naturalmente di trovare un loro equilibrio. Forse dipende dal fatto che i nativi digitali hanno vissuto sulla loro pelle anche determinati lati negativi, come per esempio il bullismo digitale, e ne sono rimasti colpiti. Credo che i giovani cerchino più la qualità, che la quantità. Nei social media condividono meno, ma meglio.

Anche il mondo dell’informazione online sta cambiando rapidamente a causa della tecnologia. Come cambierà l’esperienza di fruizione delle notizie in futuro?

Per i giornalisti è un momento molto difficile. Ci sono diversi problemi: fake news e notizie costantemente negative. Con Cambridge Analytica, le elezioni americane, Brexit e così via abbiamo imparato il detto “bad news travels faster”. Questo ci obbliga a immaginare soluzioni ad un problema estremamente complesso. Alcuni editori offrono unicamente articoli a pagamento, schermando i contenuti dietro al paywall. Altri, come il Guardian, offrono informazione in modo gratuito affidandosi alle donazioni dei lettori. Molte persone non vogliono pagare per informarsi. Io sono incentivata a farlo perché voglio restare aggiornata con informazione di qualità, e perché ritengo sia utile per il mio lavoro. C’è un grande lavoro da parte delle redazioni per farci avere le notizie, credo sia giusto pagare per ricevere informazione di qualità. Non so davvero, però, quale possa essere un modello sano per l’editoria. Credo in un ritorno all’informazione “disconnessa”, come per esempio il libro cartaceo: c’è troppa informazione online. La cosa che mi è sempre piaciuta del giornale fisico è che lo puoi comprare e, con facilità, puoi passarlo a qualcuno. Oppure puoi trovarlo gratis al bar. Il paywall invece pone necessariamente un muro che in qualche modo stona, a differenza del giornale, del libro o della rivista.

C’è un’inversione di trend nell’entusiasmo per i social network. Come cambierà, in futuro, l’uso di questi strumenti?

I social media sono un fenomeno relativamente giovane. Oggi li usiamo ancora in abbondanza per perdere tempo, c’è tantissima inutilità in tutto questo. Le persone però si stanno rendendo conto che questi sistemi sono delle trappole per i nostri dati personali. Siamo sempre più sensibili a questo tema: Snapchat ha introdotto i messaggi che scompaiono, Instagram ha seguito con le storie. Questo fenomeno di voler eliminare le tracce è già avviato: le persone non vogliono che ciò che fanno o scrivono resti per sempre disponibile online. Sappiamo anche che i social hanno su di noi l’effetto dopamina, e possiamo diventarne assuefatti come con le sigarette. Dobbiamo valorizzare gli aspetti straordinari dei social media: per esempio le persone, le aziende e gli artisti hanno la possibilità di farsi conoscere raggiungendo direttamente il pubblico. Gli artisti esordienti oggi hanno la possibilità di raccontare la loro storia e mostrare le loro opere con molta più facilità rispetto a come ciò accadeva in passato. L’utilizzo di questi strumenti, secondo me, sarà sempre più “utile”. Tutto ciò che è inutile, tutto ciò che è perdita di tempo, secondo me scomparirà. Vogliamo veramente vedere anche stasera su Instagram cosa hanno mangiato i nostri amici a cena?

Resto ottimista. È vero che il progresso è andato molto più veloce rispetto alla nostra capacità di stare al passo. C’è però bisogno di “igiene digitale”, c’è bisogno di trasferire la cultura e l’educazione del mondo reale anche nel mondo virtuale. Prendiamo conoscenza dei problemi relativi alla privacy: non è più possibile cliccare “agree”, “agree”, “agree” per poi renderci conto solo a posteriori del problema. Il picco di entusiasmo ingenuo sta scemando, viviamo un tempo in cui le persone sono più caute. Il passo successivo è rendersi conto di ciò che è veramente utile e abbandonare ciò che non aggiunge valore alla nostra vita, al nostro lavoro e alle nostre relazioni.



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